Autore: Stefano Ferro

Articolo pubblicato in Bugnion News n.44 (Luglio 2020) – Ascolta la versione Audio

La pandemia dei mesi scorsi ha avuto un impatto importante su tutti i settori dell’attività umana, e i diritti di proprietà intellettuale non hanno fatto eccezione. C’è stata ad esempio, come era ragionevole attendersi, una sensibile crescita delle domande di brevetto per dispositivi di protezione individuale, per dispositivi di sanificazione e in generale per tutto ciò con cui (nostro malgrado) abbiamo imparato ad avere a che fare negli ultimi mesi.

La pandemia ha però portato con sé anche la conoscenza generalizzata di un termine come COVID che, fino a qualche tempo fa, era riservata a pochi addetti ai lavori. Questa conoscenza generalizzata ha avuto un riflesso anche nel mondo dei marchi: da metà marzo a fine giugno 2020 l’EUIPO (Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale) ha ricevuto ben 36 domande di marchio che includono la dicitura COVID. I prodotti e i servizi associati a tali domande di marchio sono di ogni tipo, e solo in alcuni casi i marchi riguardano farmaci o dispositivi medici, o servizi comunque collegati con la prevenzione della malattia.

Quali possono essere le problematiche legate ad un marchio costituito dal termine COVID da solo, o comunque contenente tale dicitura?

Un primo aspetto da considerare è quello della possibile mancanza di capacità distintiva della parola COVID o della combinazione che include la stessa. Tra i 36 marchi depositati, ad esempio, ci sono combinazioni come CONTRA COVID o COVID FREE: in quei casi si può ritenere che il consumatore che viene a contatto con i prodotti o con i servizi associati alle rispettive domande di marchio capisca, senza bisogno di ulteriori riflessioni, che i prodotti o i servizi in questione si propongono di essere “contro il COVID” o “liberi dal COVID”, descrivendo quindi una qualità (reale, enfatizzata o semplicemente presunta) di tali prodotti o servizi. In tali casi i consumatori non percepiranno tali diciture come indicatori di origine, e quindi le domande di marchio correlate non potranno essere accolte non essendo possibile attribuire un diritto di esclusiva ad un singolo operatore su una dicitura in grado di descrivere una qualità del prodotto o servizio.

E se la dicitura non fosse stata depositata da sola e in caratteri standard, ma associata ad elementi figurativi? Fino a 10-15 anni fa circa la presenza di elementi figurativi portava spesso l’EUIPO a ritenere che tali elementi figurativi facessero acquisire al marchio almeno un minimo di capacità distintiva e che quindi la registrazione potesse essere concessa. Negli ultimi anni, però, la tendenza è cambiata e l’EUIPO non ritiene più che la mera presenza di elementi figurativi elimini ogni contestazione relativa alla capacità distintiva. Quindi, se la parte verbale del marchio è ben leggibile ed è considerata priva di capacità distintiva, è molto probabile che l’EUIPO emetta un provvedimento di rifiuto.

Un secondo importante aspetto da considerare è quello della contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume. Per “ordine pubblico” si intende l’insieme dei principi fondamentali dell’ordinamento (dello Stato, ma in questo caso anche dell’Unione Europea) mentre la nozione di “buon costume” è associata ad alcuni principi fondamentali di carattere etico che vengono ritenuti importanti dalla maggioranza della popolazione in un determinato periodo storico. Quindi la contrarietà all’ordine pubblico, ad esempio, ha portato l’EUIPO a rifiutare domande di marchio contenenti la parola “mafia” e la contrarietà al buon costume ha portato al rifiuto di marchi al cui interno erano presenti parolacce, figure ritenute oscene, eccetera. Un termine come COVID può ricadere in queste categorie qualora il soggetto che deposita il marchio chieda un’esclusiva per classi merceologiche in cui tale termine non abbia una valenza descrittiva (come potrebbe invece accadere quando si associa il termine a farmaci, dispositivi medici o anche a servizi di cura). In pratica si potrebbe ritenere che l’uso della parola COVID su un capo di abbigliamento equivalga ad una mancanza di rispetto per i soggetti che sono stati colpiti dalla malattia, e lo stesso ragionamento si potrebbe fare per giochi di parole che includano la parola COVID (abbiamo esempi di questo tipo tra gli ultimi marchi depositati, tra i quali compaiono combinazioni come COVIDALOCA, COCOVID e COVID LIGHT).

Finora l’EUIPO ha approvato per la pubblicazione solamente 3 delle 36 domande di marchio sopra citate, e alcune domande sono pendenti da più di tre mesi (mentre di solito tra deposito e pubblicazione intercorrono pochi giorni). Già questo dato, anche se al momento non risultano provvedimenti definitivi, ci dà un’idea di quanto sia complicato il rapporto tra il termine COVID e il mondo dei marchi. È poi interessante notare come le poche domande finora pubblicate dall’EUIPO si riferiscano tutte a prodotti e servizi legati al settore medico.

Nei prossimi mesi l’EUIPO deciderà sulla sorte delle domande di marchio ancora pendenti e avremo quindi più elementi per giudicare il rapporto tra il mondo dei marchi e il termine COVID. Per ora notiamo come dopo un’impennata iniziale il ritmo dei depositi sia sensibilmente calato sia in maggio che in giugno, a dimostrazione che (incrociando le dita) il termine in questione sembra catalizzare sempre meno l’attenzione dei consumatori. Possiamo ora sperare che anche il rapporto tra COVID e marchi non conosca una “seconda ondata”.

© BUGNION S.p.A. – Luglio 2020