Articolo pubblicato in Bugnion News  n.11 (Luglio 2015)

Il TTIP (cioè Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti) è un accordo commerciale di libero scambio che coinvolge i 50 Stati degli USA e le 28 nazioni dell’Unione Europea. Per apprezzare l’importanza di tale trattato, basti pensare che da esso potrebbe nascere la più grande area di libero scambio al mondo, senza contare il fatto che il Pil degli Stati Uniti sommato a quello dell’Unione Europea corrisponde a circa il 45% del Pil mondiale.

I negoziati sono stati avviati nel giugno 2013 (ci sono voluti circa 10 anni di preparazione per arrivare a quel momento) e dovrebbero concludersi alla fine del 2015. A quel punto, per quanto riguarda l’Unione Europea, spetterà al Parlamento europeo votare il trattato e per quanto riguarda gli Stati Uniti, passerà al vaglio del Congresso americano. In considerazione del fatto che la data di definizione del trattato è già stata più volte posticipata per le discussioni in corso (dal 2014 è addirittura partita una campagna contro l’approvazione del TTIP) e dato l’approssimarsi delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti nel 2016, è presumibile che i tempi dell’eventuale approvazione del TTIP rischino di slittare ulteriormente.

Per quanto riguarda la posizione dell’Italia, il governo ha espresso il pieno e incondizionato appoggio alla firma dell’accordo.

Per entrare nel merito del dibattito in corso, se i sostenitori del trattato vedono di buon occhio l’abbattimento delle barriere tariffarie, che favorirebbero l’aumento delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, da parte dei detrattori si teme per le tante regole che potrebbero saltare: i controlli e gli standard minimi richiesti per la circolazione delle merci, le norme sulle sostanze chimiche tossiche, le leggi sanitarie, i prezzi dei farmaci, la libertà di internet e la privacy dei consumatori, l’energia, i diritti di Proprietà Industriale e il diritto d’autore.
Per quanto riguarda il settore agroalimentare italiano sono principalmente 3 i temi che presentano maggiori criticità cioè:

  1. Sicurezza alimentare
  2. Tutela delle nostre DOP + IGP
  3. Composizione delle controversie degli investitori.

Riguardo al primo punto, vi è il timore che l’accordo possa andare a discapito della qualità dei cibi che arriverà sulle nostre tavole, con l’introduzione di cibi oggi non consentiti nell’Unione Europea (dove la normativa è più stringente) come prodotti OGM, carne con ormoni, carcasse di pollo lavate con il cloro e quelle di mucca con acido lattico ecc., con l’obiettivo di avere prezzi più bassi e con il conseguente  rischio di un danno per le nostre PMI.

La questione forse più delicata per il settore agroalimentare italiano è legata ai possibili danni ai marchi a denominazione di origine. Il sistema delle produzioni DOP IGP, che in Italia genera un fatturato di circa 12 miliardi di euro e un valore di export pari al 32%, potrà essere messo in seria difficoltà, con prodotti a basso costo e provenienti dai paesi esteri. A riguardo, permangono importanti divergenze tra il sistema europeo di tutela delle denominazioni di origine, utilizzato come baluardo delle tradizioni locali e garanzia di non appropriazione da parte di paesi terzi e gli Stati Uniti, dove il concetto di denominazione di origine appare sconosciuto.  Il punto cruciale è il diverso sistema di protezione: l’Unione Europea ha adottato per le denominazioni di origine una distinta forma di tutela (rafforzata e di tipo pubblico) rispetto alla registrazione ordinaria dei marchi d’impresa di tipo privatistico, secondo la cui impostazione le indicazioni geografiche prevalgono (quasi) sempre sui marchi e la provenienza viene sempre tutelata. Invece negli Stati Uniti non esiste un sistema di protezione alternativo alla tutela offerta dai marchi. Secondo l’impostazione americana, la protezione ad una indicazione geografica viene accordata solamente se qualità, notorietà ed altre caratteristiche del prodotto siano attribuite essenzialmente alla sua origine geografica. Pertanto, occorre provare che il consumatore medio americano associa l’indicazione geografica al territorio che essa richiama e che tale associazione determina la scelta d’acquisto.

La Commissione Europea vorrebbe quindi stabilire una lista delle denominazioni di origine che abbia effetto vincolante, così come è accaduto per esempio nel recente accordo con il Canada e che ha permesso al Prosciutto di Parma e San Daniele di essere finalmente autorizzati, dopo circa 20 anni di battaglia, ad utilizzare il loro nome in quel paese. Da notare che tale accordo è ritenuto da molti comunque insoddisfacente in quanto non prevede la retroattività e di conseguenza, le indicazioni geografiche europee riconosciute dall’accordo (circa un centinaio) dovranno coesistere con i marchi d’impresa canadesi già registrati che, però dovranno indicare in etichetta l’origine del prodotto, senza alludere alle indicazioni geografiche europee corrispondenti.

Gli Stati Uniti, invece, propendono per un sistema puramente volontario e senza effetti cogenti. Questo perché, ad esempio, il giro di affari dei produttori ed esportatori caseari statunitensi che commercializzano prodotti recanti nomi di origine europea (come asiago, fontina, gorgonzola, feta) frutta circa 21 miliardi di dollari annui.

Infine, il trattato potrebbe contenere la clausola ISDS (Investor-State Dispute Settlement)molto contestata anche da parte di alcuni governi europei, che prevede la creazione di un arbitrato sovranazionale, destinato a risolvere le controversie tra aziende investitrici e governi accusati di non rispettare le clausole del trattato (anche se fossero norme importanti per la tutela dei propri cittadini). Non solo le aziende potrebbero citare gli Stati in giudizio, ma le vertenze non verrebbero giudicate dai tribunali ordinari sulla base di tutta la normativa vigente, ma da un arbitrato che giudicherà in base all’interpretazione del solo trattato. Pertanto, se lo Stato (comune o regione) dovesse venire giudicato colpevole, dovrebbe ritirare il provvedimento e risarcire l’impresa (vedi caso dell’Ilva di Taranto o della diossina di Seveso), a vantaggio soprattutto delle multinazionali.

Infine, da approfondire è l’iter di ratifica degli Stati membri UE. C’è il dubbio che il trattato non abbia bisogno della ratifica dei Parlamenti nazionali e possa verificarsi quindi la conclusione ‘autonoma’ di un trattato da parte degli organi UE, direttamente vincolante per gli Stati (senza ulteriore intervento di ratifica ed esecuzione dei singoli parlamenti degli Stati membri).
In conclusione, se i nostri rappresentanti europei sapranno garantire certe condizioni di sicurezza e trasparenza, l’occasione potrà essere certamente vantaggiosa per tutti i cittadini europei e per l’economia italiana in particolare.

In tale attesa e nell’incertezza degli esiti dell’accordo, è ancor più importante che le aziende italiane si attivino tutelando e valorizzando le proprie produzioni attraverso la registrazione di marchi collettivi o marchi individuali d’impresa.

© BUGNION S.p.A. – Luglio 2015