Autore: Claudio Balboni

È con tristezza, non estrema, ma comunque tristezza, che leggo un passaggio della sentenza del Tribunale T-490/22 dell’11 ottobre 2023.

Questa sentenza richiama un principio risalente almeno al 2005 (T-211/03, del 20/04/2005, “Faber-NABER”, punto 36) e più volte evocato dal Tribunale stesso (T-353/04, del 13/02/2007, “CURON-EURON”, punto 74; T-434/07, del 2/12/2009, “Solvo-VOLVO”, punto 37): quindi nulla di nuovo sotto il sole, senonché vengono riaffermati principi che non mi sento di condividere.

Ma quali sono questi principi?

Ho sempre ritenuto che il marchio più “forte” che si potesse consigliare ad un cliente fosse quello denominativo.

Mi è sempre stato insegnato che il marchio denominativo conferiva la facoltà di riprodurlo in qualsiasi forma, dimensione e colore e che conseguentemente potesse permettere al suo titolare di contrastare altri soggetti che avessero adottato un marchio simile dal punto di vista verbale, ma riprodotto in un dato font.

In sintesi, ho sempre presunto che depositando un marchio denominativo avrei permesso al mio cliente di monopolizzare qualsiasi veste grafica che il marchio potesse assumere.

Mi rincuora constatare che non sono l’unico a pensarla in questo modo, infatti tutte le difese che dal 2005 ad oggi si sono confrontate con il Tribunale su questo aspetto, hanno sostenuto la medesima tesi. Ed anche l’allora UAMI (ora EUIPO) pare averlo fatto[1].

Tuttavia, quella che ho esposto non è l’impostazione del Tribunale stesso.

Nella sentenza citata, ai punti 51 e 52, si legge infatti che “the applicant’s argument that the earlier mark, as a word mark, enjoys protection in all fonts […] cannot succeed”, “A word mark is a mark consisting entirely of letters, of words or of groups of words, written in printed characters in normal font”, “The graphic form which the earlier word sign might have in the future must not, therefore, be taken into account for the purposes of the examination of similarity”.

Ciò che getta un’ombra sempre più scura nei meandri grigi dell’indeterminatezza della nostra materia, è il fatto che nella sentenza citata si introducono parametri atti contenere la portata dei marchi denominativi che sono di una soggettività estrema: toccherà infatti all’interprete individuare il “normal font” e l’abnormal font.

La sentenza è stata resa nella controversia che vedeva il conflitto tra il marchio denominativo AJONA ed il marchio figurativo AYUNA, il primo a protezione di “dentifrici” ed il secondo a protezione di una serie di altri prodotti cosmetici. Nella controversia in questione il Tribunale ha ritenuto che il titolare del marchio denominativo anteriore, non potesse contrastare il marchio figurativo posteriore.

Senza entrare nel merito di tutti i passaggi che hanno portato l’Organo giudicante ad affermare che non vi fosse rischio di confusione, vorrei soffermarmi sulla mera affermazione che un marchio denominativo ha protezione solo verso marchi riprodotti in un “font normale”.

Il reiterato ricorso a criteri ermeneutici eminentemente soggettivi implica che gli stessi sfocino in una discrezionalità assoluta dell’organo che è chiamato a giudicare, quando ci sarebbe invece immenso bisogno del contrario: di criteri chiari, facilmente interpretabili, che non si risolvano nell’incrociare le dita auspicando che il pregevolissimo giudice Tizio ritenga “normale” (o “non normale”, a seconda della parte dalla quale ci si schieri) un certo font. Visto che non è a priori accertabile cosa un certo giudice riterrà “normale” (per me, per esempio, è “normale” scrivere in corsivo, ma il Tribunale, nella controversia citata, ha ritenuto che non lo sia), sarebbe bene che simili parametri di giudizio venissero espunti totalmente dalla nostra materia.

Questo anche e soprattutto perché vi sono altri strumenti che giustificherebbero un’impostazione totalmente differente.

Per capire quale, a mio sommesso avviso, dovrebbe essere questa salvifica impostazione, bisognerebbe partire da una storica sentenza cella Corte: la SABEL – Puma del 1997 (C-251/95, dell’11/11/1997).

In tale sentenza, come tutti noi sappiamo, le analisi visiva, fonetica e concettuale sono poste alla base della valutazione del rischio di confusione tra due marchi (ibidem punto 23).

Tuttavia, la Corte non si spinge nell’affermare che uno dei tre elementi debba avere un peso superiore agli altri.

Io sono invece dell’opinione che nel mondo reale i tre aspetti non abbiano il medesimo peso: e oserei dire che questo vale in linea generale per qualsiasi prodotto o servizio si consideri.

Presumo che un neuroscienziato potrebbe affermare che l’aspetto fonetico sia l’unico che permette al consumatore di rendersi sia parte passiva (il consumatore sente o legge il marchio che gli viene pronunciato) sia parte attiva (il consumatore può a sua volta scrivere o pronunciare il marchio stesso). Quando invece dal lato visivo e concettuale il canale comunicativo attivo è totalmente assente e, in relazione a questi due aspetti, l’utente è sempre e solo parte passiva: infatti il consumatore può solo vedere o intuire ciò che il marchio rappresenta o gli comunica, ma non può a sua volta trasmettere queste immagini o questi concetti se non traslandoli verbalmente (ossia usando un elemento denominativo). Pertanto, almeno da un punto di vista meramente statistico, il canale fonetico, che è quello strettamente collegato alla parte denominativa del marchio, vale il doppio dei due canali visivo e concettuale.

E questo, si badi bene, indipendentemente dal fatto che l’elemento denominativo sia scritto in modo “normale” (T-490/22 punto 52) o particolare: cosa che ci aiuterebbe ad uscire dalla nebbia di soggettività nella quale i giudici ci hanno fatto finire. Infatti, anche se l’elemento denominativo di un marchio figurativo fosse scritto con font e con escamotage grafici particolarissimi, fintanto che il consumatore sarà in grado di leggere qualcosa in quel segno, quel qualcosa dovrà pesare enormemente di più dell’aspetto visivo o concettuale dello stesso. Ossia, a mio avviso, basta che io possa leggere qualcosa in un segno figurativo e quello che posso leggere deve prendere il sopravvento sull’elemento grafico e concettuale.

Mi rendo conto che l’osservazione fatta in precedenza (ossia che solo la comunicazione verbale avesse un duplice canale -attivo e passivo- mentre la comunicazione visiva e concettuale fossero fruibili solo passivamente), potrebbe esporre alla critica che ciò che rileva è come il consumatore recepisce il marchio e conseguentemente si potrebbe replicare che l’unico canale utile ai nostri fini dovrebbe essere quello passivo. Per queste ragioni, essendo questo canale comune a tutti e tre gli aspetti, non vi sarebbe motivo per attribuire maggiore valenza all’elemento denominativo.

In realtà, se è vero che generalmente si considera come il marchio colpisce immediatamente il consumatore, è altresì vero che non si vede per quale motivo non si debba soppesare la circolazione successiva che potrebbe avere il segno, in quanto anche la stessa impatta evidentemente sul rischio confusorio. Deve rilevare infatti anche come il marchio “circola” successivamente alla prima volta in cui il consumatore lo ha visto, conseguentemente non vi è ragione che spinga a negare un primato all’elemento denominativo contenuto in ciascun marchio.

Questo anche perché, normativamente parlando, la Direttiva 2015/2436 come il Regolamento 2017/1001 parlano di “rischio di confusione per il pubblico” e non solo per il primo consumatore che entra in contatto con il marchio: concetto che pare sostenere la tesi di cui sopra.

Per queste ragioni ritengo che la presenza di una parte denominativa nel marchio debba essere considerata come determinante.

In aggiunta, vale la pena considerare che oggigiorno non è trascurabile il mondo digitale. Molti di noi trascorrono almeno un terzo delle loro giornate (la parte lavorativa) davanti ad un pc e successivamente passano buona parte del resto del tempo di veglia davanti ad un device collegato alla rete. E questo vale, anche se sicuramente in misura diversa, sia per i giovani che per gli adulti. Le pubbliche amministrazioni (tra le quali anche molti Uffici marchi) si stanno digitalizzando (ed alcune si vantano addirittura di essere paperless e di non accettare altri canali comunicativi che non siano quelli digitali). La maggior parte delle operazioni private di ciascuno di noi si svolge con l’ausilio di smartphone: dalla chat con gli amici alla gestione delle proprie finanze. E chi più ne ha, più ne metta.

Ma nel mondo on-line, se è vero che anche gli aspetti visivo e concettuale dei marchi giocano un ruolo importante, dobbiamo comunque considerare che siamo sempre tenuti a scrivere o pronunciare qualcosa per potere fare funzionare un device.

Già il membro delle Commissioni di Ricorso EUIPO André Pohlmann (nell’articolo “Il ruggito di una tigre senza denti?” pubblicato sull’EUIPO Newsletter del December 11, 2023) faceva presente che “I prodotti attualmente acquistati a vista in un supermercato o su internet potranno presto essere ordinati a voce con l’aiuto di assistenti virtuali alimentati da IA («Alexa», «Siri» ecc.). Inoltre, l’acquisto di prodotti può essere il risultato diretto di una comunicazione orale (ad esempio, una raccomandazione del prodotto da parte di un dipendente o un annuncio dagli altoparlanti in un supermercato). In tali situazioni, la percezione fonetica del segno può avere un ruolo cruciale, anche per i prodotti che normalmente vengono acquistati a vista”.

Ma questa osservazione è limitativa se consideriamo che:

  • l’elemento denominativo del marchio (anche di quello realizzato nel font più “anormale” possibile) deve essere scritto su un motore di ricerca on-line per permettere la ricerca del prodotto o servizio;
  • solo la parte denominativa di un marchio (anche quella del marchio con il font più fantasioso) può costituire un dominio internet, che per sua natura è riprodotto in un font “normale” (come direbbe il Tribunale);
  • solo la parte denominativa di un marchio figurativo (anche se stranissimo) può costituire la chiave di ricerca del prodotto (o servizio) su di un qualsiasi marketplace;
  • la sola parte denominativa di un marchio figurativo (anche quasi-illeggibile) può costituire il nome di un profilo social, dove viene pubblicizzato il prodotto o servizio contraddistinto dal marchio.

E poi mi fermo, ma sono convinto che vi siano altre numerose ipotesi in cui il consumatore è chiamato a scrivere o a pronunciare un marchio se vuole “interagire” con il prodotto o servizio contraddistinto e che, conseguentemente, mi pare innegabile che quando un marchio ha un elemento denominativo, questo non possa pesare come l’aspetto visivo e come quello concettuale.

Si aggiunga che, anche se concettualmente è evidente che un elemento meramente figurativo può trasmettere importanti messaggi, quando il titolare vuole fare circolare un marchio figurativo, spesso deve identificarlo con un nome. A titolo meramente esemplificativo si pensi allo “swoosh della Nike che, con moto dinamico volto al crescendo, trasmette un’idea di accelerazione e slancio: nonostante la celebrità dello stesso, quando la Nike ha voluto fare sì che questo elemento concettuale fosse ricercabile, ha dovuto contraddistinguerlo con un elemento denominativo, ossia ha dovuto chiamarlo “swoosh”. Infatti, se volessimo cercare on-line il marchio meramente figurativo, considerando che (ad oggi) le ricerche per immagini non sono molto efficaci, dovremmo necessariamente usare l’elemento denominativo con il quale il titolare lo ha identificato.

Per sottolineare l’importanza dell’aspetto denominativo del marchio, pensiamo poi a quei consumatori non vedenti o che non sentono. Orbene, colui che non vede può solo sentire e a sua volta pronunciare un marchio. Colui che non sente lo può vedere, ma se lo vuole comunicare è costretto a scriverlo (o a pronunciarlo). E si torna sempre lì: l’aspetto verbale, collegato alla presenza di un elemento denominativo, pesa enormemente di più di quello concettuale e visivo e a mio avviso, in sua presenza, lo stesso azzera quasi totalmente la portata dei primi due.

Ragione per la quale, se le Corti avessero voluto interpretare ciò che avviene nella realtà e contribuire a ripulire la nostra materia da inutili soggettivismi, avrebbero potenziato la portata dei marchi meramente denominativi, estendendo la loro forza d’azione contro qualsiasi marchio figurativo che, anche nei meandri delle sue bizzarre forme grafiche, lasciasse intravvedere un timido elemento verbale simile a quello del marchio denominativo.


[1] Nella sentenza T-211/03, al punto 36 si legge “Dall’altro, l’UAMI sembra conferire al marchio denominativo un elemento grafico dui cui esso è, per definizione, privo. Inoltre, l’UAMI adotta una prospettiva monca allorché giustifica la tutela conferita dal marchio denominativo anteriore con la sua idoneità a imitare in futuro la forma particolare del marchio complesso richiesto”.