Articolo pubblicato in Bugnion News n.45 (Settembre 2020) – Ascolta la versione Audio

Da anni, nel mondo della moda, assistiamo a provocazioni ed ironia che sono oramai alla base della moda stessa: differenziarsi per essere unici, stupire per fare parlare di sé, innovare per attrarre l’attenzione, sono stati e continuano ad essere ingredienti essenziali e necessari alla crescita di questa industria.

I prodotti ed i loro accessori, sono un insieme di stimoli e sensazioni che avvolgono i consumatori, emozioni che devono essere uniche e diverse da quelle commercializzate degli altri marchi. L’ossessione per la qualità, i materiali, le innovazioni, non sono più sufficienti, bisogna andare oltre, stupire per essere veramente competitivi in un mercato saturo di idee.

Nel 2018 dei giovani creativi milanesi, hanno provato a rivoluzionare questi concetti, creando capi di abbigliamento che in maniera ironica, emulavano e mischiavano altri marchi. Creavano T-shirt a marca “Fake Lab” che ad esempio, riportavano la scritta Fendi, rappresentata e graficizzata come quella di Fila; scrivevano Dior utilizzando la stessa grafica del noto detersivo Dash; sulle loro magliette, il logo Prada era rappresentato con gli stessi colori e forme di quello della Pepsi e così via. Attori, influencer e personaggi dello spettacolo si facevano ritrarre e fotografare con questi capi di tendenza. Sul sito web di Fake Lab, si leggeva che il loro obiettivo era ‘rivisitare in maniera parodistica prodotti noti per creare una nuova e diversa rappresentazione grafica, un nuovo modo di concepire la moda e una modalità di espressione libera e moderna’.

Di recente la Cassazione Penale si è pronunciata sulla legittimità di tale uso parodistico di marchi e loghi che godono di rinomanza sui capi a marchio Fake Lab. In questo articolo analizzeremo la relativa sentenza numero 35166 del 31/07/2019, della Suprema Corte.

 

Il quadro normativo

Esponiamo qui di seguito innanzitutto il quadro normativo connesso all’argomento.

Il Codice Penale (art. 473) stabilisce che chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, contraffà o altera marchi o segni distintivi, di prodotti industriali, integra il reato di contraffazione e punisce chi introduce in Italia prodotti industriali aventi marchi o altri segni contraffatti o alterati.punisce inoltre chi detiene questi prodotti per la vendita nonché chi li commercializza o li immette in circolazione in qualsiasi altro modo.

Oltre alla tutela del marchio nel codice penale, la normativa italiana prevede nell’articolo 20 del Codice della Proprietà Industriale, che il titolare di un marchio ha il diritto di vietare a terzi soggetti l’utilizzo di segni che il pubblico potrebbe confondere con prodotti e servizi identici ai prodotti per il quali il marchio è stato registrato.

Questo principio è stato introdotto a livello europeo dall’articolo 9 del Regolamento UE 2007/1001. Sempre a livello europeo, si rileva che l’articolo 27 della Direttiva UE 2015/2536 (Direttiva sul ravvicinamento della legislazione degli Stati Membri in materia di marchi di impresa) stabilisce che l’uso di un marchio d’impresa da parte di terzi, consistente in un’espressione artistica, dovrebbe essere considerato corretto ma solo se conforme alle consuetudini di lealtà, in campo industriale e commerciale.

IL CASO FAKE LAB

Il caso Fake Lab ha una particolare rilevanza in quanto ha riaperto il dibattito giurisprudenziale e dottrinale in materia di libera utilizzazione dei marchi (notori) ai fini parodistici o satirici. Fino ad ora, in casi simili al presente, dove cioè l’oggetto della parodia erano marchi notori, la dottrina e la giurisprudenza si erano spesso pronunciate a favore dei marchi celebri, in quanto tali marchi sono protetti non solo da avversi utilizzi confondibili, ma anche contro utilizzi che possano pregiudicare l’immagine del marchio ovvero, far ottenere un indebito vantaggio all’abusivo utilizzatore.

La vicenda Fake Lab, ha avuto inizio dal decreto di sequestro probatorio emesso dal Tribunale di Ravenna avente ad oggetto i capi di abbigliamento posti in vendita a marchio Fake Lab per i reati previsti dagli artt. 473, 474 e 648 c.p.

Il titolare del marchio Fake Lab ha poi presentato richiesta di riesame del decreto, che tuttavia è stata rigettata e quindi ha provveduto a proporre ricorso in Cassazione contro l’ordinanza di rigetto del Tribunale del riesame delle misure cautelari emesse.

Il difensore sosteneva l’illegittimità di tale sequestro per la mancanza del fumus commissi delicti (in italiano “la probabilità di effettiva consumazione del reato”) in ordine alla contraffazione, dal momento che i capi sequestrati non erano oggetto di contraffazione in quanto i marchi ritenuti falsificati, erano stati utilizzati per creare delle immagini originali progettate con finalità parodistiche.

Nella decisione della Cassazione è stato ribadito che per affermare il delitto di cui all’articolo 474 e 473 del Codice Penale, è necessario che il prodotto ritenuto contraffatto sia confondibile con gli originali e sia idoneo a creare confusione nel consumatore: il marchio ha infatti una precisa funzione distintiva funzionale a garantire l’affidamento dei consumatori sull’originalità del prodotto acquistato.

Inoltre, la Corte ha aggiunto che la Direttiva UE 2015/2436 nell’articolo 27 ha chiarito che l’uso di un marchio d’impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale.

Alla luce di quanto sopra esposto, la Cassazione ha ritenuto che il riconoscimento della contraffazione non possa rinvenirsi nei casi in cui il marchio sia utilizzato con palesi finalità ironiche e parodistiche, per creazione di prodotti nuovi ed originali, che pur facendo uso del marchio registrato, sono sicuramente inidonee a creare confusione con i beni tutelati, dato che è immediatamente evidente il messaggio parodistico che esclude ogni possibilità di confusione.

Nel caso di specie la Corte ha ritenuto che i capi a marchio Fake Lab presentavano una indiscussa originalità e che i marchi e loghi celebri erano stati utilizzati non a fini distintivi e dunque imitativi, ma piuttosto a fini parodistici ovvero artistici e descrittivi. Le riproduzioni ironiche di marchi e loghi noti risulterebbero pertanto inidonei a creare confusione con i prodotti protetti dai marchi tutelati e quindi incompatibili con la contestata contraffazione.

Alla luce di tale considerazione la Corte di Cassazione ha deciso che l’indiscussa originalità dei prodotti non consentiva la conferma del sequestro probatorio.

Tuttavia, la presente sentenza non sembra porre fine al dibattito in tema di utilizzo parodistico del marchio altrui. Infatti, a seguito di nuove iniziative di commercializzazione dei capi a marca Fake Lab, la sezione civile del Tribunale di Milano si è dovuta pronunciare sempre sullo stesso argomento.

Il Tribunale milanese, contrariamente alla decisione qui sopra commentata, ha sostenuto che si debba escludere la configurabilità di qualsiasi ipotesi di uso legittimo, in quanto i segni celebri vengono solo utilizzati a scopo commerciale, sostenendo quindi che non sussista un preteso riconoscimento del valore di opera d’arte, creativa, ovvero dell’uso a fini di parodia e ironica citazione.

Pertanto il Tribunale di Milano, ritenendo sussistere la contraffazione del marchio e la concorrenza sleale, ha così inibito a Fake Lab ogni ulteriore uso in contraffazione del marchio altrui ed ha autorizzato il sequestro dei capi di abbigliamento in contraffazione ordinandone il ritiro dal commercio.

Considerando che l’uso parodistico del marchio nel mondo della moda è una pratica sempre più ricorrente e diffusa, siamo certi che nel prossimo futuro assisteremo a nuove interpretazioni normative. Attendiamo quindi con grande interesse nuove decisioni e giurisprudenza in merito all’argomento.

© BUGNION S.p.A. – Settembre 2020