Articolo pubblicato in Bugnion News n.31 (Novembre 2018)

E’ stato definito “legal fake” (con un ossimoro forse non del tutto appropriato per descrivere il fenomeno, ma che certamente rende l’idea dei profili ambigui che la caratterizzano), una pratica (che pare abbia origini tutte italiane) che si è recentemente affermata nel settore della moda, al punto da guadagnarsi una pagina dedicata nella versione in lingua inglese di Wikipedia.

Con questo termine si intende infatti definire la condotta di soggetti che precedono il titolare di un marchio originale nel deposito dello stesso, in un territorio nel quale quest’ultimo non risulta ancora registrato. Basandosi sullo sfruttamento del marchio così ottenuto, il soggetto in questione svolge la propria attività di impresa (dalla produzione alla distribuzione dei capi di abbigliamento contraddistinti dal marchio in questione) atteggiandosi come legittimo titolare del marchio originale (o licenziatario dello stesso), imponendosi così agli occhi di consumatori (ma anche distributori e negozianti) spesso inconsapevoli.

La pratica in questione si basa su un’appropriazione che spesso non si limita soltanto al marchio, ma anche ad una serie di elementi ulteriori che caratterizzano lo stile dei prodotti, l’immagine del brand e/o le strategie di marketing adottate da chi ha creato il marchio originale.

Si tratta di un fenomeno sfaccettato, che a detta di alcuni non rientrerebbe nella contraffazione vera e propria, in quanto non prevede la riproduzione pedissequa di prodotti originali, bensì la creazione di un vero e proprio business parallelo a quello del titolare del marchio originale, approfittando della circostanza che quest’ultimo risulta spesso noto soltanto a una cerchia di appassionati.

Il termine “legal fake” è stato spesso adottato (a stretto rigore in maniera non calzante, viste le particolarità del caso concreto) per descrivere quanto accaduto in Italia a Chapter 4 Corp. D.B.A. Supreme, società statunitense titolare del marchio “Supreme”.

Si tratta di un brand di streetwear creato da James Jebbia, che dal primo negozio aperto a Manhattan, a Lafayette Street, nel 1994, è successivamente diventato simbolo della controcultura dello skateboarding di quegli anni (anche attraverso una serie di collaborazioni con artisti, musicisti e fotografi). Più di recente il marchio Supreme si è particolarmente diffuso anche a seguito di una collezione realizzata con Louis Vuitton, al punto che la società titolare dello stesso è giunta ad essere valutata un miliardo di dollari.

Un successo senz’altro dovuto alle scelte creative messe in atto nel corso di alcuni decenni, che hanno portato un brand scelto dal proprio fondatore in maniera pare neanche troppo ponderata a diventare, in maniera a tratti inaspettata, punto di riferimento per le tendenze della moda globale, ma che lo hanno al contempo esposto, in un contesto così mutato, ad una serie di minacce che attualmente rischiano di pregiudicarlo in modo significativo.

Nel nostro Paese il marchio Supreme è stato recentemente al centro di un procedimento cautelare instaurato davanti al Tribunale di Milano dalla società statunitense titolare dello stesso nei confronti della italiana Trade Direct s.r.l., licenziataria del marchio sammarinese “Supreme” del 18 novembre 2015 e dell’identico marchio italiano depositato in pari data, entrambi registrati da International Brand Firm Ltd. (società con sede nel Regno Unito).

Nel giudizio in questione la società statunitense ha contestato (tra l’altro) l’illegittimità della commercializzazione, da parte della società italiana, di capi di abbigliamento a marchio Supreme, messa in atto anche attraverso il nome a dominio supremeitalia.com (registrato attraverso un servizio di proxy che cela l’identità del relativo titolare) e la pedissequa ripresa, sia nei capi di abbigliamento che nel sito internet, dello stile e delle grafiche adottati dal brand originale.

Tali condotte sono state contestate tanto sotto il profilo della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c., quanto sotto il profilo della contraffazione di marchio. In relazione a tale ultimo aspetto la società statunitense si è peraltro basata sul proprio marchio italiano “Supreme” del 9 ottobre 2015, il cui deposito ha preceduto di poco più di un mese il successivo deposito dei marchi di cui la società resistente è licenziataria.

All’esito di tale procedimento cautelare il Tribunale di Milano ha, tra l’altro, inibito l’utilizzo del marchio Supreme e del sito supremeitalia.com da parte di Trade Direct, ordinando il ritiro del mercato dei prodotti recanti il marchio Supreme e fissando una penale in caso di violazione dell’inibitoria (cfr. Tribunale di Milano, ord., 31 gennaio 2017).

Tale decisione è stata confermata anche nell’ordinanza emanata a seguito del successivo reclamo proposto da Trade Direct (Tribunale di Milano, ord., 20 aprile 2017), nella quale pure significativo risalto ha assunto la titolarità, in capo alla società statunitense, di un marchio italiano anteriore rispetto a quello di cui la Trade Direct aveva dedotto di essere licenziataria.

A tale ultimo riguardo il Collegio investito della questione non ha peraltro mancato di evidenziare come, nell’argomentare le proprie difese, Trade Direct non fosse stata in grado di allegare (né tantomeno di dimostrare) un proprio eventuale preuso del marchio Supreme, circostanza che avrebbe potuto rivestire un ruolo cruciale nella valutazione della vicenda.

Il Collegio ha inoltre ricondotto alla fattispecie della concorrenza sleale “parassitaria” prevista dall’art. 2598, n. 3, c.c. le condotte messe in atto da Trade Direct, chiaramente desumibili da un raffronto dei prodotti commercializzati da quest’ultima rispetto a quelli della società statunitense, dalle modalità di presentazione dell’attività svolta da Trade Direct e dalle iniziative pubblicitarie intraprese di accostamento e agganciamento ai prodotti di Chapter 4, tali da “ingenerare la convinzione di un collegamento, se non addirittura di una identità, con l’attività e i prodotti della ricorrente/reclamata”.

Al riguardo il Tribunale di Milano, richiamandosi anche ad una precedente pronuncia della Corte di Cassazione ha chiarito che “ricorre, invero, l’ipotesi della “concorrenza parassitaria” quando l’imitatore si ponga sulla scia del concorrente in modo sistematico e continuativo, sfruttando la creatività e avvalendosi delle idee e dei mezzi di ricerca e finanziari altrui. La “concorrenza parassitaria” si realizza in una pluralità di atti che, pur isolatamente leciti, e valutati nel loro insieme, costituiscono un illecito, poiché concretizzano una forma di imitazione delle iniziative del concorrente, che sfrutta in maniera sistematica il lavoro e la creatività altrui. Tali atti possono concretamente manifestarsi sia attraverso un’attività che in un unico momento imiti tutte le iniziative del concorrente (concorrenza parassitaria di tipo sincronico), sia attraverso la successione nel tempo di singoli atti imitativi (concorrenza parassitaria di tipo diacronico)”.

Da ultimo, il Collegio ha precisato anche che, ai fini della valutazione del requisito della sussistenza dei requisiti per richiedere un provvedimento d’urgenza (come quello concesso all’esito del primo grado cautelare dal Tribunale di Milano) risulta “superflua la valutazione della sussistenza di un danno alla data della richiesta misura cautelare, il cui scopo è di cessare la prosecuzione dell’illecito o anche solo di prevenirne la verificazione”.

Tale procedimento cautelare (che ha permesso ai giudici di fornire una serie di importanti indicazioni, in punto di diritto, sui profili di illiceità delle particolari condotte messe in atto da Trade Direct, in uno dei primi casi che hanno affrontato un fenomeno del genere) si è dunque concluso favorevolmente per la società statunitense, ma ha cionondimeno evidenziato una serie di criticità, in parte connaturate allo stesso marchio “Supreme” e in parte dovute alla (mancanza di) strategia adottata per la relativa protezione.

Come detto, infatti, nel procedimento cautelare davanti al Tribunale di Milano fondamentale è risultata la circostanza che Chapter 4 avesse depositato il proprio marchio in Italia prima di quelli di cui Trade Direct risulta essere licenziataria. Tale deposito tuttavia è stato formalizzato poco più di un mese prima di quello della società resistente, e comunque soltanto nel 2015, vale a dire a distanza di ben 15 anni da quando il marchio “Supreme” aveva iniziato ad essere utilizzato in Italia, in un primo momento soltanto tramite la piattaforma di e-commerce gestita direttamente da Chapter 4 (che, come espressamente evidenziato dal Tribunale di Milano, risultava attiva anche sul mercato italiano a partire dal 2000).

Peraltro, secondo quanto riportato nel provvedimento del primo grado cautelare, anche negli Stati Uniti il marchio “Supreme” risulta registrato soltanto a partire dal 2012, circostanza forse dovuta anche al fatto che lo stesso risulta largamente ispirato allo stile e alle opere dell’artista statunitense Barbara Kruger (aspetto che avrebbe potuto ostacolare la concessione dello stesso), unita al fatto che la dicitura “Supreme” potrebbe essere considerata descrittiva e/o priva di carattere distintivo.

 

(opera di Barbara Kruger tratta da www.thefashionlaw.com)

 

 

 

 

Di tale avviso è stato l’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO), che con comunicazione del 25 aprile 2018 ha rifiutato la domanda di registrazione di marchio europeo presentata da Chapter 4 (a seguito del deposito di osservazioni di terzo), in quanto il consumatore medio delle lingue inglese e romena attribuirebbe al segno il significato “di massima qualità”.

La controversia riguardante il brand Supreme sembra dunque tutt’altro che conclusa, non solo a fronte del fatto che i provvedimenti assunti dal Tribunale di Milano hanno, allo stato, natura meramente anticipatoria (e potrebbero quindi essere superati da un’eventuale sentenza di merito), ma anche dal momento che pare siano ancora aperti una serie di fronti.

Tra gli altri, non risulta ancora definito un procedimento penale (un sequestro probatorio, dunque anche in questo caso avente natura meramente cautelare) intentato anche nei confronti del legale rappresentante di International Brand Firm (che peraltro dichiara di avere registrato il marchio Supreme in oltre 50 Paesi nel mondo, tra cui l’Italia), il cui ultimo sviluppo è rappresentato da una sentenza della Cassazione (Cass. Pen, sez. II, n. 35466 del 25 luglio 2018), la quale ha ordinato un nuovo esame degli eventuali presupposti per la sussistenza del reato previsto dall’art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi).

Nella propria motivazione, la Suprema Corte ha evidenziato come il Tribunale precedentemente investito della questione avrebbe omesso di soffermarsi sulle analitiche contestazioni delle parti ricorrenti afferenti, tra l’altro, l’incidenza, ai fini della configurabilità dei reati contestati, della intervenuta registrazione del marchio utilizzato dai ricorrenti e le questioni relative alla mancata registrazione del territorio europeo del marchio riferibile a Chapter 4, in ragione del carattere non individualizzante dello stesso.

Nella sentenza in questione si dà peraltro atto della pendenza di una controversia di tipo civilistico finalizzata alla declaratoria di nullità del marchio in contestazione.

Nel frattempo International Brand Firm avrebbe ottenuto una decisione favorevole in Spagna, dove sarebbe stata negata la notorietà del marchio Supreme di Chapter 4 sostenuta da quest’ultima per contestare le registrazioni ottenute in quel territorio dalla società britannica.

Ulteriori iniziative sarebbero inoltre state intraprese da Chapter 4, con esiti non sempre favorevoli per quest’ultima, anche attraverso altri procedimenti cautelari in sede penale promossi sia sul territorio italiano che sammarinese.

La vicenda in questione, oltre ad attirare l’attenzione su un fenomeno in aumento che ha interessato ed interessa tuttora anche altri brand con caratteristiche analoghe a quelle di Supreme (al riguardo segnaliamo le recenti ordinanze del Tribunale di Milano del 13 marzo e del 28 maggio 2018 a favore della società statunitense High Speed Productions, titolare del marchio “Thrasher”), richiama ancora una volta l’attenzione sull’importanza di pianificare con attenzione la scelta del proprio brand, la strategia di tutela dello stesso e la relativa diffusione.

A tale riguardo risulta senz’altro cruciale avvalersi del supporto di un consulente specializzato in materia di proprietà industriale e intellettuale che possa fornire adeguata assistenza anche nell’attività di pianificazione della strategia di registrazione del marchio.

© BUGNION S.p.A. – Novembre 2018