Autore: Elena Tripodi

Articolo pubblicato in Bugnion News n.40 (Marzo 2020) – Ascolta la versione Audio

Harry e Meghan, ci avete provato! Regina 1 – Duchi di Sussex 0. Palla al centro.

Nella precedente newsletter abbiamo trattato la tutela IP che i Duchi di Sussex avevano conferito al marchio “Sussex Royal”, tramite il deposito di due privative, entrambe depositate l’anno scorso nel Regno Unito a nome della loro fondazione benefica.

Ci avevano visto lungo Harry e Meghan, ma non avevano fatto i conti con the Queen.

Infatti, in brevissimo tempo lo scenario è cambiato. Come saprete, il Principe Harry e consorte hanno ufficialmente divorziato dalla famiglia Reale inglese lo scorso gennaio, definendo le condizioni di tale separazione che diverrà definitiva la primavera prossima. Tutto sembrava deciso: i Duchi già si vedevano a fare “money rain” con gli introiti di contratti di licenza, co-branding e sponsorship dei loro marchi.

Invece Cuore di Nonna ha deciso che va bene spiccare il volo, ma i titoli nobiliari rimangono a casa!

Così la Regina Elisabetta ha posto il veto sull’utilizzo del termine “Royal” da parte del Principe e dell’ex attrice americana. Tale decisione ha certamente colto di sorpresa i due, i quali avevano effettuato cospicui investimenti economici sia sul sito ufficiale www.sussexroyal.com, sia sui profili social, sia in una strutturata strategia di marketing, basata proprio sullo sfruttamento economico dei marchi “Sussex Royal” e “Sussex Royal the Foundation of the Duke and Duchess of Sussex”.

Come recita una tradizionale canzone inglese “The Queen commands and we’ll obey, Over the Hills and far away”, non senza polemiche, Harry e Meghan hanno obbedito al volere della Regina, ritirando le domande di marchio e confermando che, al termine della fase di transizione che avverrà nella primavera del 2020, la loro organizzazione no-profit non utilizzerà il nome “Sussex Royal” o qualsiasi altra iterazione di “Royal” in qualsiasi territorio, sebbene non vi sia alcuna giurisdizione da parte della Monarchia circa l’uso della parola “Royal” all’estero.

Al di là di considerazioni squisitamente legali che analizzeremo di seguito, la decisione della coppia di dimettersi da “Senior Royals”, di non svolgere funzioni ufficiali e di perseguire un’indipendenza finanziaria non può incoerentemente poi sfociare in una mercificazione di uno status a cui hanno volontariamente rinunciato.

D’altra parte, a differenza di quanto sostenuto dai diretti interessati, è altrettanto chiaro che il veto non è frutto di una semplice ripicca “reale”, ma si basa su fonti normative emanate a tutela della Corona inglese, oltre che sulla “Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale” del 1883.

L’Articolo 4.1.d della Legge Marchi inglese del 1994 stabilisce che non possa essere registrato un marchio che consista di o contenga parole, lettere o dispositivi che possano indurre le persone a pensare che il richiedente abbia o abbia avuto di recente il patrocinio o l’autorizzazione reale, a meno che non risulti al cancelliere che il consenso sia stato dato da o per conto di Sua Maestà o, a seconda dei casi, del membro della famiglia reale interessato.

Oltre alla norma sopra menzionata, esiste anche un documento emanato dall’Ufficio del Lord Chamberlain che riassume la posizione legale che regola l’uso, a fini commerciali, di armi reali, dispositivi reali, emblemi e titoli, fotografie, ritratti, incisioni, effigi e busti della Regina e dei membri della Famiglia Reale. In tale documento, proprio in merito all’uso del termine “Royal”, si fa riferimento al già menzionato articolo 4. Non solo, viene anche chiarito che tale autorizzazione viene concessa con parsimonia e che vengono applicati standard e criteri rigorosi non divulgati in alcun modo, né tantomeno diffuse le ragioni della concessione o del rifiuto di una formale richiesta. Ne deriva che la concessione dei titoli non è un diritto che può essere rivendicato da un soggetto che semplicemente soddisfa determinate condizioni.

Da sempre la Monarchia inglese ha assistito a tentativi di sfruttamento di presunti “collegamenti reali”, ed è per questo che la Corona ha adottato regole severe. Ed è altrettanto chiaro che non si tratta di una monarchia che vuole custodire gelosamente i vantaggi del proprio status, ma di proteggere il pubblico da truffe e messaggi ingannevoli. Così come qualunque imprenditore che tutela e difende il proprio patrimonio di Proprietà Intellettuale, anche a difesa di ignari consumatori, la Corona inglese non vuole che qualcuno compri merce di scarsa qualità rivendicandone, invece, una provenienza “reale”.

Per quanto riguarda lo scenario internazionale, stante l’esplicita lamentela dei Duchi di Sussex, si deve far riferimento al dettato della Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale.

L’articolo 6 ter  pone a carico dei Paesi dell’Unione l’onere di rifiutare o di invalidare la registrazione e di vietare l’utilizzazione non autorizzata dalle autorità competenti, sia come marchi di fabbrica o di commercio, sia come elementi di detti marchi, di stemmi, bandiere e altri emblemi di Stato dei Paesi dell’Unione, di segni o di punzoni ufficiali di controllo e di garanzia da essi adottati, nonché di qualsiasi loro imitazione dal punto di vista araldico. Tale onere è da applicarsi salvo il caso in cui l’uso o la registrazione di tali segni non sia tale da suggerire, nell’apprezzamento del pubblico, un nesso tra l’organizzazione in questione e gli stemmi, bandiere, emblemi, sigle o denominazioni o se questo uso o registrazione non sia verosimilmente tale da trarre in inganno il pubblico sull’esistenza di un nesso tra l’utente e l’organizzazione.

Ne deriverebbe che, se i Duchi di Sussex avessero deciso di estendere la tutela dei propri marchi all’estero, gli Stati aderenti alla Convenzione menzionata – ad oggi 177 – ne avrebbero probabilmente rifiutato la registrazione.

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Andando oltre la questione “Sussex Royal”, deve risultare chiaro che la ratio degli impedimenti sopra descritti rifletta un interesse pubblico, dunque anche riconosciuto a livello internazionale, a non svilire l’immagine di simboli degli stati o reali, impedendone uno sfruttamento in funzione del perseguimento di obiettivi commerciali da parte di terzi.

© BUGNION S.p.A. – Marzo 2020