Il proprio nome non può essere considerato soltanto il frutto di una scelta amorevole e, ammettiamolo, talvolta discutibile, di mamma e papà o il mero segno di appartenenza ad un gruppo familiare. Esso può rivelarsi uno strumento in grado di garantire vantaggi competitivi non trascurabili, e di questo occorre tener conto. 
Di seguito, l’articolo pubblicato sul numero 252 della Rivista Mark Up.

Come si disciplina il marchio patronimico
L’importanza di una tutela adeguata del proprio nome. Rischi di confusione e principi di correttezza nell’uso

Dietro al nome spesso si nasconde un potenziale commerciale di notevole rilievo.
Investire su di esso, registrandolo come marchio, potrebbe rivelarsi una scelta strategica di impatto sulle possibilità di successo dei propri prodotti o servizi sul mercato. Il primo vantaggio da prendere in considerazione consiste nell’assenza di aderenza concettuale tra il patronimico e il prodotto/servizio che si vuole contraddistinguere.
Il marchio patronimico è dotato, infatti, di una capacità distintiva ab origine che consente di risparmiare sugli investimenti che sarebbero invece richiesti per assicurare un secondary meaning (acquisto successivo di capacità distintiva) a marchio nato descrittivo. Pertanto il titolare di un marchio patronimico si troverà in possesso non solo di un marchio valido, ma anche e soprattutto di un marchio forte che sarà tutelato contro somiglianze anche minime idonee a ingenerare confusione.
La normativa nazionale (art. 8 del D.lgs. 30/2005, Codice della Proprietà Industriale) e quella comunitaria (art. 12, comma I, lettera a, Regolamento n. 207/2009) consentono di registrare come marchio non solo il proprio nome, ma anche il nome appartenente a terzi, introducendo il principio della libera appropriabilità. In questa circostanza, il diritto al nome, subisce una limitazione nell’ambito dell’attività economica e commerciale quando il nome stesso sia già stato registrato come marchio altrui. Ciò significa che il legittimo titolare non potrà utilizzare il proprio nome nella propria attività economica o registrarlo come marchio per prodotti/ servizi identici o affini a quelli già inclusi in un marchio anteriore che contenga lo stesso nome. Tuttavia, proprio quel diritto al nome inizialmente limitato dalla registrazione anteriore, può godere di una leggera apertura qualora sia utilizzato dal legittimo titolare nella propria attività economica in modo conforme ai principi della correttezza professionale e cioè in modo da evitare qualsiasi rischio di confusione o forma di agganciamento parassitario al marchio anteriore. Tale conformità sussiste qualora il proprio nome venga utilizzato in funzione meramente descrittiva e non distintiva.

Il caso dello stilista Elio Fiorucci
L’utilizzo del nome è stato oggetto della causa tra lo stilista Elio Fiorucci e le due società titolari nonché dalla licenziataria del marchio Fiorucci, rilevato dal concordato della Fiorucci spa in liquidazione.
Lo stilista era accusato di contraffazione, violazione e di concorrenza sleale in quanto, dopo aver interrotto i rapporti di collaborazione con le cessionarie, aveva iniziato a utilizzare e a presentare
domanda di registrazione per il marchio “Love Therapy by Elio Fiorucci” per prodotti di abbigliamento, accessori e gadget. Secondo lo stilista, il segno contestato era stato utilizzato in modo lecito perché descrittivo del suo apporto creativo, così come sottolineato dalla particella by che precedeva il nome. La Suprema Corte ha respinto le argomentazioni, evidenziando i confini entro cui poter applicare la regola “il nome è mio e lo uso come voglio”. Ha stabilito che “L’inserimento, nel marchio, di un patronimico coincidente con il nome della persona che in precedenza l’abbia incluso in un marchio registrato, divenuto celebre, e poi l’abbia ceduto a terzi, non è conforme alla correttezza professionale se non sia giustificato, in un ambito delimitato, dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all’attività, ai prodotti o ai servizi offerti dalla
persona che ha il diritto di svolgere una propria attività economica e intellettuale o creativa ma senza trasformarla in un’attività parallela a quella per la quale il marchio anteriore sia non solo stato registrato ma abbia anche svolto una rilevante sua funzione distintiva”. Lo stilista non si era limitato ad associare il patronimico al proprio lavoro creativo, ma anche alla commercializzazione
di servizi e prodotti di altre imprese. La Corte di Cassazione ha individuato una violazione dell’art. 21, comma I lett. a) C.p.i., volta a “vietare l’uso del patronimico in funzione ingannevole o confusoria, quando e dove il suo impiego avvenga in violazione dei criteri regolatori della correttezza professionale”.

Morellato, una questione di omonimia
Il Tribunale di Venezia si è pronunciato in un procedimento cautelare che ha visto come parte ricorrente la società Morellato spa. L’ azienda ricorrente aveva agito nei confronti di una società con denominazione omonima, Morellato spa, verso la quale chiedeva fosse inibito l’utilizzo in qualsiasi forma e modalità del marchio Morellato. Il Tribunale di Venezia, in prima fase cautelare, ha respinto ogni eccezione presentata dalla parte resistente. Quest’ultima, inoltre, eccepiva che l’uso del segno “Morellato” nella propria ragione sociale e del nome a dominio “morellatobeauty.it” fosse conforme ai principi di correttezza professionale in quanto utilizzato in funzione meramente descrittiva. A suo dire, il segno veniva inserito nella ragione sociale a partire dal 2013, cioè, quando i due soci, entrambi con cognome Morellato, avevano acquisito la titolarità dell’intero capitale della società che fino a quel momento era denominata “New Company 1999 Srl”. Nel respingere questa eccezione, il Tribunale di Venezia ha messo in evidenza che, se è vero che l’attenuante della conformità ai principi della correttezza professionale opera anche in relazione al patronimico recepito in una denominazione sociale, a contrario, il nome contenuto nella denominazione sociale che sia utilizzato in funzione distintiva non potrà essere legittimamente
utilizzato se interferente con i diritti anteriori altrui. In particolare, “è innegabile che il segno Morellato sia utilizzato dalla convenuta sic et simpliciter in funzione puramente distintiva e non
per indicare il nome e cognome dei soci della convenuta finendo per focalizzare per intero l’attenzione sul segno Morellato, peraltro del tutto identico ai marchi coinvolti. Un tale uso non
è conforme ai principi della correttezza professionale poiché idoneo a dare l’impressione che esista un legame commerciale tra il terzo e il titolare del marchio”. Sebbene il provvedimento
d’urgenza emesso dal Tribunale di Venezia sia attualmente oggetto di reclamo, non possiamo non prestare attenzione all’importante principio enunciato dall’autorità giudicante, da tenere
in considerazione qualora si voglia utilizzare il proprio nome in funzione di qualsiasi segno distintivo.

Settembre 2016